martedì 17 maggio 2011

Alla Chiesa di Roma

Padre, predica pure se tanto ti diletta predicare, ma non predicare menzogne se non credi a cio che vai dicendo, perche’ ogni tua parola potrebbe essere di guida a chi ti ascolta e potresti far dei tuoi novizi gli amici del diavolo

Se credi in qualcosa di buono, fallo.
Se credi in qualcosa di vero, dillo.
Se credi in qualcosa di giusto, difendilo

sabato 14 maggio 2011

La saggezza di Odino

Essendo il più antico degli dèi e il creatore del mondo e di tutte le cose, Odino è il signore della sapienza, conoscitore delle cose antiche e profonde. Egli ha imparato per primo tutte le arti e in seguito gli uomini le hanno apprese da lui. Tra i molti epiteti di Odino, parecchi si riferiscono alla sua immensa sapienza: Fjölnir e Fjölnsviðr ("assai sapiente"), Sanngetall ("che intuisce il vero"), Saðr o Sannr ("che dice il vero"), Forni ("antico") e Fornölvir ("antico sacerdote"), cioè conoscitore di tutte le cose dal principio.
La sapienza di Odino è conoscenza, magia e poesia al tempo stesso. Egli non solo conosce i misteri dei Nove Mondi e l'ordine delle loro stirpi, ma anche il destino degli uomini e il fato stesso dell'universo.
Odino ama disputare con creature antiche e sapienti. Sotto le mentite spoglie di Gágnraðr ("stanco del cammino") si giocò la vita sfidando a una gara di sapienza il possente gigante Vafþrúðnir, la cui erudizione era rinomata in tutti i Nove Mondi, e dopo una serie di domande sul passato, il presente e il futuro del mondo, a cui il gigante rispose prontamente, Gágnraðr domandò allora che cosa avesse sussurrato il dio Odino a Baldr prima che questi fosse posto sulla pira. Vafþrúðnir a questo punto lo riconobbe, ma aveva ormai perso la gara.
Un'altra volta, dicendo di chiamarsi Gestumblindi ("l'ospite cieco"), il dio sfidò un re di nome Heiðrekr ad una gara di indovinelli. Dopo una serie di quesiti a cui il re rispose senza difficoltà, Odino gli pose la medesima domanda che già aveva posto a Vafþrúðnir. A quella domanda il re cercò di ucciderlo, ma il dio gli sfuggì trasformandosi in falco.
Odino osserva il corpo decapitato di Mímir. Illustrazione per il carme Sigrdrífomál nell'edizione svedese dell'Edda poetica curata da Fredrik Sander.
Odino tiene accanto a sé la testa recisa[3] di Mímir, fonte inesauribile di conoscenza che gli rivela molte notizie dagli altri mondi (Völuspá 45). In un'altra versione (Völuspá 28) dello stesso motivo mitologico, Odino si cava un occhio e lo offre in pegno a Mímir per attingere un sorso di idromele da Mímisbrunnr, la fonte della saggezza che il gigante custodisce. L'occhio di Odino rimane, quindi, nella fontana dalla quale lo stesso Mímir ne beve ogni giorno l'idromele.[4] Da quella mutilazione derivano gli epiteti di Bileygr ("guercio") e Báleygr ("occhio fiammeggiante").
Così nella Völuspá:

(NON)
«  Ein sat hon úti,
þás enn aldni kom
yggiungr ása
ok í augu leit.
- Hvers fregnið mik?
hví freistið mín?
Alt veitk, Óðinn,
hvar auga falt
í enum mæra
Mímis brunni -;
drekkr miöð Mímir
morgin hverian
af veði Valföðrs.
Vituð ég enn eða hvat? »
(IT)
«  Sola sedeva di fuori
quando il vecchio giunse
Yggiungr degli Æsir
e la fissò negli occhi.
- Che cosa mi chiedete?
Perché mi mettete alla prova?
Tutto io so, Odino,
dove tu nascondesti l'occhio
nella famosa
Mímisbrunnr! -
Mímir beve idromele
ogni mattino
dal pegno pagato da Valföðr.
Che altro tu sai? »

Vichinghi

Origine

La popolazione vichinga viene identificata negli abitanti della Danimarca, della Norvegia, della Svezia settentrionale. Si trattava di tre popolazioni distinte, identificate in una. Avevano influenze germaniche e celtiche.
I vichinghi sono detti anche runii o runici, perchè utilizzavano le Rune. Si tratta di testi che richiamano le incisioni usate dagli Germani. Runa significa sussurrare. Si tratta dunque di massime che contengono dei significati di guida e di esempio per la popolazione vichinga.
Un antico detto nordico dice:
"Un uomo non dovrebbe incidere le Rune se non è in grado di leggerle correttamente, perché più di un uomo è caduto su un'asta runica poco chiara. Ho visto 10 aste runiche intagliate su un osso di balena raschiato che prolungavano ulteriormente una lunga malattia".
Queste popolazioni fecero la loro comparsa attorno al 700 d.C. e furono il risultato di una fusione tra indoeuropei, celti e popoli orientali.
Nella Svezia meridionale abitavano i Gauti (Goti), di origine germanica-slava. La Finlandia era abitata dai Finni, mentre i paesi baltici dai Balti, di origine slava. A sud della Danimarca è presente la Sassonia, abitata dai Sassoni, la Frisia (Belgio e Olanda), il regno Franco, la regione degli Slavi (Polonia); più a sud si identificano i Bulgari .
La prima presenza vichinga registrata nei documenti storici è datata nel 795, quando alcuni soldati vichinghi assalirono il monastero di Lindisfarne, nella Gran Bretagna settentrionale, saccheggiandolo ed uccidendo alcuni monaci.
Circa l'etimologia della parola "vichingo" vi sono varie ipotesi, nessuna delle quali ha trovato riscontro. Il termine anglossassone wic e quello franco wik significano mercato e richiamano l'attività prevalente di questo popolo. Vik è anche il nome di una provincia norvegese, mentre con il termine vik si identifica la baia. Spesso compare la parola viking, termine riferito ad un'attività di pirateria.
I vari popoli chiamavano i vichinghi in vario modo: per i franchi, erano i normanni; per gli irlandesi erano i lochlannach; per i germani erano gli ascomanni; per gli slavi erano i ruotsi; gli arabi gli avevano dato l'appellativo di madjus.  

mercoledì 11 maggio 2011

Camelot e Re Artu !!

La storicità di Re Artù è stata a lungo dibattuta dagli studiosi, ma negli anni si è raggiunto un consenso nel ritenere sostanzialmente leggendaria la figura del sovrano. Una scuola di pensiero avanzerebbe l’ipotesi che fosse vissuto nel tardo V secolo o agli inizi del VI secolo, che fosse stato un romano-britannico e che avesse combattuto il paganesimo sassone. I suoi ipotetici quartieri generali si sarebbero trovati in Galles, Cornovaglia, o ad ovest di ciò che sarebbe diventata l’Inghilterra. Ad ogni modo, le controversie sul centro del suo potere e sul tipo stesso di potere che esercitava continuano oggi.
C’è chi sostiene che la figura di Artù possa coincidere perfettamente con quella di un certo Riotamo, "re dei Brettoni", molto attivo durante il regno dell’imperatore romano Antemio. Sfortunatamente, Riotamo è una figura minore di cui sappiamo ancora poco e nemmeno gli studiosi sono in grado di capire se i "bretoni" che comandava erano i britannici o gli abitanti dell’Armorica. Altri studi portano ad identificarlo con Ambrosio Aureliano, un signore della guerra romano-britannico che vinse alcune importanti battaglie contro gli anglosassoni, tra cui la battaglia del Monte Badon.
Altri suggeriscono di identificarlo con Lucio Artorio Casto, un dux romano del II secolo, i cui successi militari in Britannia sarebbero stati tramandati nei secoli successivi. Ufficiale (col rango di praefectus) della VI legione in Britannia, che potrebbe aver guidato un'unità di cavalieri sarmati (provenienti dall’Ucraina meridionale), stanziati a Ribchester, che conducevano campagne militari a nord del vallo di Adriano. Le imprese militari di Casto in Britannia e Armorica (odierna Bretagna) potrebbero essere state ricordate per i secoli successivi e aver contribuito a formare il nucleo della tradizione arturiana, così come le tradizioni portate dagli alano-sarmati. C'è anche chi parla dell'usurpatore romano Magno Massimo.
Un’altra teoria è quella secondo cui il nome di Artù sarebbe in realtà un titolo portato da Owain Ddantgwyn, che sembrerebbe essere stato un re di Rhôs. C’è poi l'ipotesi che egli sarebbe in realtà un re dell’età del bronzo, circa 2300 a.C.: estrarre una spada da una roccia sarebbe infatti una metafora della costruzione di una spada e della sua estrazione dalla forma dopo la fusione.
Altre supposizioni si basano sul fatto che Artù fosse Artuir mac Áedán, figlio di re Áedán mac Gabráin della Dalriada, un signore della guerra scozzese che guidò gli scoti di Dalriada contro i pitti. Secondo questa teoria, Artù avrebbe quindi svolto le sue azioni di guerra soprattutto nella regione tra il Vallo di Adriano e quello di Antonino (area del Gododdin). Per alcuni Artù potrebbe addirittura essere stato lo stesso Áedán mac Gabráin. E c’è chi pensa[2] che Artù avrebbe comandato una coalizione di celti cristiani contro gli invasori pagani, riuscendo a tenerli lontani per un centinaio d’anni circa.
Ad ogni modo, si hanno svariati omonimi, o persone con nomi simili, nella sua generazione e si può pensare che siano poi stati riuniti dalle credenze popolari e tramandati come se fossero un'unica entità. Ed ecco così spuntare Arthnou, un principe di Tintagel (in Cornovaglia), che visse nel VI secolo, oppure Athrwys ap Meurig, re del Morgannwg (odierno Glamorgan) e del Gwent (due aree del Galles). Artù potrebbe quindi essere un semplice collage di tutte queste figure mitologiche o storiche.

[modifica] Artù figura leggendaria

Il nome Arthu, che come antroponimo risulta storicamente attestato nella Pietra di Artù, in lingua celtica continentale significa orso, simbolo di forza, stabilità e protezione, caratteri anche questi ben presenti in tutta la leggenda[3]. Un'interessante ipotesi è stata recentemente prospettata da alcuni storici britannici consulenti dell'ente televisivo statale BBC circa l'origine del nome "Arthur". Esso, a loro dire, potrebbe infatti derivare dall'unione del termine bretone "Arth" (che significa "Orso"), con l'analogo termine di derivazione latina "Ursus". Dal vocabolo ancestrale "Arth - Ursus" sarebbe derivato "Arthur"[4]. Nella civiltà celtica gli uomini avevano come nome proprio quello di un animale che sceglievano per sottolineare un tratto fisico o caratteriale, e l'orso è l'animale simbolo per eccellenza della regalità. Anche sulla base del suo nome, una scuola di pensiero ritiene che la figura di Artù non abbia nessuna consistenza storica e che si tratterebbe di una semi-dimenticata divinità celtica poi trasformata dalla tradizione orale in un personaggio realmente esistito, come sarebbe accaduto per Lir, dio del mare, divenuto poi re Lear[5]. In gallese la parola arth significa "orso" e tra i celti continentali (anche se non in Britannia) esistevano molte divinità-orso chiamate Artos o Artio. È probabile che queste divinità siano state portate dai Celti in Britannia. Va anche notato che la parola gallese arth, quella latina arctus e quella greca arctos significano "orso". Inoltre, Artù è chiamato l'"Orso di Britannia" da alcuni scrittori. "Arktouros" ("Arcturus" per i Romani), ovvero "guardiano dell'orsa", e "Arturo" in italiano) era il nome che i Greci davano alla stella in cui era stato trasformato Arkas, o Arcade, re dell'Arcadia e figlio di Callisto, che invece era stata trasformata nella costellazione dell'Orsa Maggiore ("Arctus" per i Romani). Altre grafie esistenti del suo nome sono Arzur, Arthus o Artus. L'epiteto di "Pendragon" gli viene invece dal padre, Uther Pendragon.

[modifica] Antiche tradizioni

La morte di Re Artù, di James Archer (18231904)
Artù appare per la prima volta nella letteratura gallese: in un antico poema in questa lingua, Y Gododdin (circa 594), il poeta Aneirin (535-600) scrive di uno dei suoi sudditi che lui "nutriva i corvi neri sui baluardi, pur non essendo Artù". Ad ogni modo, questo poema è ricco di inserimenti posteriori e non è possibile sapere se questo passaggio sia parte della versione originale o meno. Possiamo però fare riferimento ad alcuni poemi di Taliesin, che sono presumibilmente dello stesso periodo: The Chair of the Sovereign, che ricorda un Artù ferito; Preiddeu Annwn ("I Tesori di Annwn"), cita "il valore di Artù" e afferma che "noi partimmo con Artù nei suoi splendidi labours"; poi il poema Viaggio a Deganwy, che contiene il passaggio "come alla battaglia di Badon con Artù, il capo che organizza banchetti/conviti, con le sue grandi lame rosse dalla battaglia che tutti gli uomini possono ricordare".
Un'altra citazione è nell'Historia Brittonum, attribuita al monaco gallese Nennio, che forse scrisse questo compendio dell'antica storia del suo paese nell'anno 830 circa. Nuovamente, quest'opera ci descrive Artù come un "comandante di battaglie", piuttosto che come un re. Due fonti distinte all'interno di questo scritto ricordano almeno 12 battaglie in cui avrebbe combattuto, culminando con la battaglia del Monte Badon, dove si dice abbia ucciso, da solo/con una sola mano, addirittura 960 avversari.
Secondo gli Annales Cambriae, Artù sarebbe stato ucciso durante la battaglia di Camlann nel 537.
Appare inoltre in numerose vitae di santi del VI secolo, ad esempio la vita di san Illtud, che alla lettura sembra essere scritta verso il 1140, dove si dice che Artù fosse un cugino di quell'uomo di chiesa. Molte di queste opere dipingono Artù come un fiero guerriero, e non necessariamente moralmente impeccabile come nei successivi romanzi. Secondo la Vita di San Gildas (morto intorno all'anno 570), opera scritta nel XI secolo da Caradoc di Llancarfan, Artù uccise Hueil, fratello di Gildas, un pirata dell'isola di Man.
Attorno al 1100 Lifris di Llancarfan asserisce nella sua Vita di san Cadoc che Artù è stato migliorato da Cadoc. Cadoc diede protezione ad un uomo che aveva ucciso tre dei soldati di Artù, che ricevé del bestiame da Cadoc come contropartita per i suoi uomini. Cadoc glielo portò come richiesto, ma quando Artù prese possesso degli animali, questi furono trasformati in felci. Il probabile scopo originale di questa storia sarebbe quello di promuovere l'accettazione popolare della nuova fede cristiana "dimostrando" che Cadoc aveva poteri magici attribuiti tradizionalmente ai druidi e così intensi da "battere" Artù. Avvenimenti simili sono descritti nelle tarde biografie medioevali di Carannog, di Padern e Goeznovius.
Artù compare anche nel racconto in lingua gallese Culhwch e Olwen, solitamente associata con il Mabinogion: Culhwch visita la corte di Artù per cercare il suo aiuto per conquistare la mano di Olwen. Artù, che è definito suo parente, acconsente alla richiesta e compie le richieste del padre di Olwen, il gigante Ysbaddaden (tra cui la caccia al grande cinghiale Twrch Trwyth). Questo può essere riportato alla leggenda dove Artù è dipinto come il capo della caccia selvaggia, un tema popolare che è ricordato anche in Bretagna, Francia e Germania.
Roger S. Loomis ha elencato questi esempi (Loomis 1972). Gervasio di Tilbury nel XIII secolo e due scrittori XV secolo assegnano questo ruolo ad Artù. Gervasio afferma che Artù e i suoi cavalieri cacciavano regolarmente lungo un antico tratto tra Cadbury e Glastonbury (che è ancora conosciuta come King Arthur's Causeway [2]), e si pensa che lui e la sua compagnia di cavalieri possa essere vista a mezzanotte nella foresta di Brittany o Savoy in Gran Bretagna. Loomis allude a un cenno scozzese nel XVI secolo, e afferma che molte di queste credenze fossero ancora ricorrenti nel XIX secolo al Castello di Cadbury e in diverse parti della Francia. Più tardi parti del Trioedd Ynys Prydein, o Welsh Triads, menzionano Artù e collocano la sua corte a Celliwig in Cornovaglia. Celliwig è stata identificata con la città di Callington dagli anziani antiquari Celtici, ma Rachel Bromwich, l'ultimo editore delle Welsh Triads, afferma che sia in realtà Kelly Rounds, una fortezza nei pressi della parrocchia celtica di Egloshayle.

lunedì 9 maggio 2011

Tristano e Isotta

Tristano è cresciuto dallo zio, nonché re Marco, il quale è sottoposto al pagamento di un gravoso tributo dal re d'Irlanda: diventato un giovane guerriero, Tristano decide di liberare la Cornovaglia da questa sottomissione e parte per l'Irlanda, dove riesce a uccidere il gigante Moroldo, fratello del re: viene tuttavia ferito con un colpo di spada avvelenato, ma è curato dalla figlia del re, Isotta che non sa che egli ha ucciso suo zio. Tristano, una volta guarito, torna in Cornovaglia. Pressato di sposarsi per garantire al trono una successione, il re Marco decide di prendere per moglie colei a cui appartiene un capello d'oro, portato dal mare da un uccello. Tristano, ricordandosi di Isotta, parte per l'Irlanda, ma, appena arrivato, deve combattere un terribile drago. Lo uccide, ma viene ferito, e, ancora una volta, curato da Isotta, che si accorge allora che egli è colui che aveva ucciso il Moroldo: rinuncia tuttavia a vendicarsi ed è promessa in sposa a Marco per sanare le rivalità tra i due regni. Si imbarca dunque con Tristano verso la Bretagna. Ma la regina d'Irlanda affida all'ancella Brangania un filtro magico, da far bere ai due sposi la notte di nozze: essi allora si innamoreranno profondamente l'uno dell'altra. Durante la navigazione, però, Tristano beve per errore il filtro, credendo che sia vino, e lo offre a Isotta: i due cadono preda dell'amore. Isotta sposa comunque Marco, facendosi sostituire da Brangania per la consumazione del matrimonio.
Seguono mesi di amori clandestini, di trucchi e menzogne, durante i quali i due innamorati rischiano costantemente di essere ingannati dai baroni invidiosi. Un nano malvagio, buffone del re, tenta di farli cogliere sul fatto durante un loro appuntamento notturno nel verziere, ma Tristano si accorge della presenza del re nascosto tra le fronde di un pino e riesce ad avvertire Isotta, che inscena un dialogo del tutto innocente. Un'altra volta, il nano sparge della farina sul pavimento della camera da letto regale: Tristano salta sul letto di Isotta per evitarla, ma così facendo gli si riapre una ferita che macchia di sangue le lenzuola. Scoperti e condannati a morte, i due riescono a fuggire e si rifugiano nella foresta del Morrois. Dopo tre anni, il filtro comincia a indebolirsi: non sopportando più la vita allo stato selvaggio, ed essendo stati scoperti da re Marco, Tristano decide di restituire la donna al re, e parte: si reca allora in Bretagna dove sposa Isotta dalle Bianche Mani, con la quale tuttavia non consuma il matrimonio.
Nel frattempo l'innocenza della regina è continuamente messa in dubbio dai baroni malvagi, inducendola a reclamare un'ordalia. In base a quest'usanza, Isotta dovrà giurare di essere stata sempre fedele al marito stringendo in mano un ferro incandescente: se avrà detto la verità, Dio la proteggerà rendendole giustizia. Tristano si reca alla cerimonia travestito da lebbroso, e aiuta la regina che si mette a cavalcioni sulle sue spalle, a superare il Guado Pericoloso. Così ella può giurare di non aver mai avuto tra le gambe altro uomo oltre a suo marito e il lebbroso stesso.
Più volte ancora Tristano si reca segretamente in Cornovaglia, travestito da pellegrino o da folle; una volta l'accompagna il cognato Caerdino, che offeso per l'ingiuria fatta da Tristano alla sorella (non aveva consumato il matrimonio con Isotta dalle Bianche Mani) vuole vedere con i suoi occhi la bellezza di Isotta la Bionda e l'intensità del suo amore. I due così fanno pace e Caerdino si proclama amante dell'ancella della regina, Brangania.
Ferito gravemente durante una spedizione, Tristano capisce che solo Isotta la Bionda può guarirlo e la manda a chiamare, chiedendo che vengano messe vele bianche alla nave con cui verrà, se lei accetta di venire, e vele nere se si rifiuta. Ella accetta, ma la sposa di Tristano, avendo scoperto il loro amore, gli riferisce che le vele sono nere. Credendosi abbandonato da Isotta, Tristano si lascia morire; la donna, arrivata troppo tardi presso di lui, muore di dolore a sua volta. Pentita per le conseguenze tragiche della sua menzogna, Isotta dalle Bianche Mani rimanda i corpi in Cornovaglia, facendoli seppellire assieme. Le piante che cresceranno sulla loro tomba, nocciolo e caprifoglio, si intrecceranno così strettamente che nessuno, mai, potrà separarle.

domenica 8 maggio 2011

Avalon

Avalon è un'isola leggendaria, facente parte del ciclo letterario legato al mito di Re Artù, situata nella parte occidentale delle isole britanniche e famosa per le sue belle mele, infatti il suo nome, letteralmente vorrebbe dire Isola delle Mele (anche se secondo alcune teorie, la parola Avalon potrebbe essere anche una traslitterazione inglese del termine celtico Annwyn, cioè il regno delle fate, o Neverworld).
Il primo documento scritto che ci parla di Avalon dandogli il significato di Isola delle Mele si trova nella Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth; questa è la traduzione più probabile, visto che in bretone e in cornico il termine usato per indicare mela è Aval, mentre in gallese è Afal, pronunciato aval. Inoltre il concetto di un'"isola dei beati", posta nell'estremo occidente (il luogo del tramonto) è presente anche altrove nella mitologia indoeuropea, in particolare nel Tír na nÓg e nel mito delle greche Esperidi (anche queste ultime famose per le loro mele).
Secondo alcune leggende (cfr. il poeta Robert de Boron), Avalon sarebbe il luogo visitato da Gesù e da Giuseppe d'Arimatea e quello dove, proprio Giuseppe d'Arimatea, dopo aver raccolto il sangue di Cristo in una coppa di legno (il Sacro Graal), si rifugiò, fondando anche la prima chiesa della Britannia. Oggi l'isola di Avalon è normalmente associata alla cittadina di Glastonbury, in Inghilterra. Sarebbe anche il luogo in cui fu sepolto Re Artù, trasportato nell'isola su una barca guidata dalla sorellastra, la Fata Morgana. Secondo la leggenda, Artù riposa sull'isola, in attesa di tornare nel mondo quando questo ne sentirà nuovamente il bisogno.
Per alcuni Avalon andrebbe identificata con Glastonbury. A partire dagli inizi dell'XI secolo, prese corpo la tradizione secondo cui Artù fu sepolto nella Glastonbury Tor, che in passato era circondata dall'acqua, proprio come un'isola. Durante il regno di Enrico II, secondo il cronista Giraldo Cambrense e altri, l'abate Enrico di Blois commissionò una ricerca, che, a una profondità di 5 metri, avrebbe portato alla luce un enorme tronco di quercia o una bara con un'iscrizione: "Qui giace sepolto l'inclito re Artù nell'isola di Avalon". I resti furono sotterrati di nuovo davanti all'altare maggiore, nell'abbazia di Glastonbury, con una grande cerimonia, a cui parteciparono anche re Edoardo I e la sua regina. Il luogo divenne meta di pellegrinaggio fino al periodo della Riforma protestante. Una vicina vallata porta il nome di Valle di Avalon. Comunque, la leggenda di Glastonbury è stata spesso considerata falsa.
Secondo altre teorie, Avalon sarebbe l'Ile Aval o Daval, sulla costa della Bretagna, oppure Burgh-by-Sands, nel Cumberland, che al tempo dei romani era il fortilizio di Aballava, lungo il Vallo di Adriano, e vicino Camboglanna, al di sopra del fiume Eden, ora Castlesteads. Per una coincidenza, il sito dell'ultima battaglia di Artù si sarebbe chiamato Camlann. Per altri Avalon sarebbe da ubicare sul Monte di san Michele, in Cornovaglia, che si trova vicino ad altre località associate con le leggende arturiane. Questo monte, è in realtà isola che si può raggiungere quando c'è bassa marea.
La questione è confusa da leggende simili e toponimi presenti in Bretagna.
Avalon, comunque, resta nell'immaginario collettivo un'isola magica, dove continuano a vivere le vecchie tradizioni dei celti e dove la Grande Dea viene onorata dai druidi e dalle sacerdotesse. Sono proprio queste ultime, sempre secondo le leggende, ad aver nascosto l'isola con una fitta nebbia, rendendo il luogo accessibile solo a chi ha la conoscenza per aprire questo incantesimo. L'isola di Avalon veniva chiamata anche "Inis witrin" (cioè "isola di vetro") per l'abbondanza di guado, pianta che sfuma sull'azzurro e che i guerrieri celti utilizzavano per tingersi la faccia per andare in battaglia.

l'Ordine dei Raminghi si ispira a Camelot

L'ordine dei raminghi prende ispirazione da ciclo Bretone di Re Artu', e dai magnifici cavalieri della sacra Tavola Rotonda. Fondato da , quest'ordine ha come scopo quello di sviluppare e diffondere le attitudini della cavalleria attraverso la pratica  Ci sforziamo di portare il nostro messaggio usando "l'esempio della cavalleria" e cerchiamo di incoraggiare il nuovo "rinascimento cavalleresco".

Noi crediamo che c'e' qualcosa di magico nell' ideale cavalleresco. I nostri modelli di riferimento sono Lancelot, Galvano, Galahad, Parsifal, ecc.
Un cavaliere della Tavola Rotonda possedeva al piu' alto livello le qualita' che si attendono da un cavaliere : franchezza, bonta' e nobilta' di cuore, pieta' e temperanza; coraggio e forza fisica; disprezzo della fatica, della sofferenza e della morte; coscienza del proprio valore; fierezza di appartenere ad una casata, di essere uomo di un signore, di rispettare la fedelta' giurata ...
I cavalieri della tavola rotonda, inoltre, hanno da sempre costituito un punto di riferimento per la loro cortesia. Una virtu' che comprende qualita' come la bellezza fisica, l'eleganza e il desiderio di piacere, la dolcezza e la freschezza d'animo, la delicatezza del cuore e dei modi, l'umorismo, l'intelligenza e la squisita educazione.
Ma per essere cortesi non basta certo la nobilta' di nascita : i doni naturali devono essere affinati da una speciale educazione e mantenuti in esercizio dalla pratica quotidiana ...

Ci sforziamo di raggiungere un delicato equilibrio, coscienti nei nostri cuori che diventare perfetti cavalieri è un obiettivo impossibile, e che noi siamo lontani, molto lontani dagli ideali. Questi non vengono mai raggiunti, ma noi crediamo che c'e' nobilta' e molto valore nello sforzo e quindi ci impegnamo a fondo per cercare di avvicinare il nostro ideale.
I cavalieri della nostra compagnia formano un ordine sociale e non una setta privata con obiettivi privati. Ecco per cui invitiamo gli altri ad aggregarsi a noi nella nostra ricerca, gli altri che la pensano come noi, e a coloro che fanno questo tentativo offriamo tutto il nostro aiuto ed il nostro consiglio.
 

ILCodice del Cavaliere

PurityAbilità : Ricercare l'eccellenza in ogni situazione che si presenta ad un cavaliere, siano esse marziali o di altro genere, cercando la forza per usarla a servizio della giustizia invece che per l'accrescimento personale.
  Giustizia : Ricercate sempre la via del "giusto", liberi da pregiudizi ed interessi personali. Riconoscete che la spada della giustizia può essere una cosa terribile, e quindi deve essere utilizzata con umanità e pietà. Se il "giusto" che state cercando è in accordo con quello degli altri, e lo  perseguite senza piegarvi alla tentazione di trovarlo con furia, allora guadagnerete riconoscenza al di la dei limiti.
  Lealtà : Fatevi riconoscere per la lealtà alle persone e agli ideali per i quali avete scelto di vivere. Ci sono situazioni nelle quali è richiesto un compromesso: la lealtà non rientra mai in queste situazioni.
  Difesa : Il cavaliere è investito dal giuramento di difendere il Capo dell'esercito e tutti coloro che da lui dipendono. Cerca sempre di difendere la tua nazione, la famiglia e tutti coloro che meritano la tua lealtà.
  cavalleriaCoraggio : Essere un cavaliere spesso significa scegliere la strada più difficoltosa, quella che costa di più alla persona. Sii preparato a fare sacrifici personali per gli ideali  e le persone importanti nel tuo cuore. Nello stesso tempo un cavaliere dovrebbe cercare saggezza per riconoscere che la stupidità e il coraggio sono cugini. Coraggio inoltre significa schierarsi dalla parte della verità in ogni caso, invece di soccombere ad una menzogna veloce. Cerca sempre la verità, ma ricorda di amministrare la giustizia con pietà, perché la verità può portare puro dispiacere.
  Fede : Un cavaliere deve avere profonda e totale fede nei suoi principi, cosicché con questa fede può dare speranze contro la disperazione e le imperfezioni che gli uomini creano.
  Umiltà : Onora prima gli altri e le loro azioni, non vantarti delle tue gesta, ma lascia che siano gli altri a farlo per te. Racconta le imprese degli altri prima delle tue, conferendogli la celebrità imparata dalle imprese più virtuose. In questo modo il compito della cavalleria è ben fatto e glorificato, aiutando tutti coloro che si chiamano cavalieri.
  Generosità : Sii generoso fino a quanto le tue risorse lo permettono, la generosità usata in questo modo previene l'egoismo personale. Inoltre questo spiana la via alla pietà rendendola facilmente riconoscibile quando la giustizia richiede una decisione difficile.
  Nobiltà : Cerca di innalzarti all'altezza delle virtù e delle responsabilità di un cavaliere, comprendendo che sebbene gli ideali non possono essere raggiunti, la qualità con cui si perseguono, nobilita lo spirito , accrescendovi dalla polvere fino ai cieli. La nobiltà ha anche la tendenza ad influenzare gli altri, offrendo un irresistibile esempio di ciò si può fare a servizio della giusta causa.
  Franchigia : Cerca di prendere in esempio tutto ciò che è stato detto nel modo più sincero possibile, non per ricevere meriti personali, ma perché è la cosa giusta da fare. Non limitare la tua visione ma cerca di infondere ogni aspetto della tua vita  queste qualità. Anche se riuscirai a vivere solamente in piccola parte secondo questo antico codice, sarai ricordato per le tue qualità e virtù.

SIGFRIDO

SIGFRIDO: è il figlio dei sovrani del Niederland, Sigismondo e Siglinde. E’ un famoso eroe, noto per la sua inarrestabilità e il suo coraggio; lottando con un drago e uccidendo il nano Regin, riesce ad impossessarsi del tesoro dei Nibelunghi. Sigfrido dopo aver ucciso il drago si immerse nel suo sangue e divenne immortale, ma una foglia gli posò tra le scapole e quello rimase il suo “tallone d’Achille, ovvero il suo unico punto debole.
Conobbe anche la bellissima Brunilde che divenne la sua promessa sposa, ma poi il perfido Hagen, durante un banchetto, fece bere a Sigfrido una coppa di vino “drogato” che gli fece dimenticare la promessa di matrimonio fatta a Brunilde e si innamorò della sorella di re Gunther, Crimilde, e la sposò. Per quanto riguarda la bella Brunilde divenne moglie di re Gunther. E’ biondo e molto forte.
BRUNILDE: donna molto bella e più forte di un uomo: era una valchiria, ovvero una semidea. Ha capelli neri, un piccolo naso deciso e lunghe ciglia nere. Le sue forze le sono date dalla cintura di fuoco donatale dal dio Odino.
CRIMILDE: figlia della regina Ute, sorella di re Gunther, Gislher Gernot; ha una carnagione di perla, occhi turchesi con capelli color grano lunghi fino a terra. Sarà poi moglie di Sigfrido e, alla sua morte, diventa moglie del re degli Unni: Attila. Divenendo moglie di questo re vuole a tutti i costi rivendicare il suo amato Sigfrido; così facendo causò la morte di molti guerrieri Unni. Il perfido Hagen pur di vedere la regina Crimilde soffrire le uccide il suo unico figlio avuto da Attila: Ortelieb; la regina uccise, con la spada di Sigfrido, Hagen, ma Hildebrand andò in collera quando venne a sapere che un valoroso guerriero era morto ucciso da una donna e così colpì Crimilde, uccidendola.
HAGEN: fidato vassallo di re dei Burgundi, Gunther. E’ l’antagonista del libro, è colui che uccide Sigfrido e Ortelieb, il figlio di Attila e Crimilde. E’ un personaggio crudele, meschino e persuasivo, infatti riesce a convincere il re Gunther ad uccidere Sigfrido.

PERSONAGGI SECONDARI:
GUNTHER: re di Worms, capitale del regno burgundo, è figlio della regina Ute e fratello di Crimilde, Gislher e Gernot. Diventa marito di Brunilde; è molto fiero di s&ecute; stesso, ma si lascia persuadere da Hagen.
GERNOT E GISLHER: fratelli di Crimilde e Gunther; Gernot è molto saggio, mentre Gislher è molto giovane.
HELCHE: è la prima e defunta moglie di Attila, nel libro viene definita molto bella.
RUDIGER DI BECHELAR: vassallo di Attila; quest’uomo è molto generoso e fedele. Ha una moglie di nome Gotelinde e da lei ha avuto una figlia di nome Dietlind.
GOTELINDE: moglie di Rudiger, era molto affezionata alla regina Helche.
BLODEL, GIBICH E TEODORICO DA VERONA: valorosi cavalieri di Attila; Blodel è il fratello di Attila.


AMBIENTAZIONE:
La vicenda è ambientata, in primo luogo, nel castello di Xanten, dove vivevano Sigfrido e i suoi genitori; successivamente la vicenda si svolge nel bellissimo castello di re Gunther. Da quando Sigfrido morì passarono circa vent’anni quando Crimilde si risposò e andò a vivere nel castello di re Attila, dove morirono tanti guerrieri Unni per rivendicare Sigfrido.

TRAMA:
Sgfrido, figlio dei sovrani dei sovrani del Niederland Sigismondo e Siglinde, partì dal suo castello per visitare i quattro regni del nord e per apprendere nuove tecniche d’armi. Dopo non troppo tempo incontrò il nano Regin che gli affidò il compito di uccidere un feroce drago che possedeva il famoso “tesoro dei Nibelunghi”. Per farla breve, Sigfrido uccise il drago e anche il nano, perch&ecute; gli fu riferito dal dal drago, in fin di vita, che era malvagio.
Sigfrido si immerse nel sangue del drago e divenne immortale, ma volteggiando una foglia gli si posò tra le scapole e quel punto divenne il suo “Tallone d’Achille”. Tra tutto ciò che era compreso dal tesoro dei Nibelunghi, Sigfrido scelse solo un anello d’oro rosso che poteva procurare tutto l’oro necessario e un elmo che rendeva invisibili. In una montagna infuocata trovò un guerriero accatastato per terra e notò che probabilmente stava soffocando a causa della pesante armatura; così con un colpo di spada tagliò l’arnatura e per sua meraviglia trovò una bella ragazza che gli rivelò di essere Brunilde, regina dell’Islanda. Sigfrido e Brunilde si innamorarono e, come pegno d’amore Sigfrido, le donò l’anello d’oro rosso e le promise di andarla a riprenderla nella terra in cui era regina. Sigfrido viaggiò ancora, ma questa volta finì nel regno dei Burgundi, la cui capitale era Worms; fu ospitato nel palazzo di re Gunther dallo stesso re e lì, Hagen, gli porse un calice di vino “drogato” che gli fece scordare la promessa fatta a Brunilde, innamorandosi della sorella del re: Crimilde. Il re venne a sapere che in Islanda viveva una regina di nome Brunilde e chiese a Sigfrido di aiutarlo a conquistarla; Sigfrido sposò Crimilde e Gunther Brunilde. Hagen riuscì a farsi dire da Crimilde quale fosse il punto debole di Sigfrido e le suggerì di cucire sulla veste dell’eroe una crocetta; Hagen fu condotto da Sogfrido ad una sorgente di acqua fresca e, quando Sigfrido si inginocchiò per bere, Hagen lo colpì proprio nel punto indicato dalla crocetta, cucita da Crimilde, uccidendolo. Passarono una ventina d’anni dalla morte di Sigfrido quando Crimilde fu convinta a risposarsi, divenne così moglie del re degli Unni: Attila. Volle rivendicare il suo amato marito, Sigfrido, ma provocò la morte di molti guerrieri Unni, uccisi durante i combattimenti dai Burgundi; il perfido Hagen uccise anche il figlio di Crimilde e Attila: Ortelieb. Finalmente si riuscì a far prigioniero Hagen e, livida di rabbia per tutto il male che le aveva fatto, Crimilde con la spada di Sigfrido lo uccise. Hildebrand venne a sapere che un valoroso guerriero era stato ucciso da una donna e decise di rivendicare Hagen, uccidendo Crimilde.
By Francy, alias Stellina.

Il Mito dei Draghi



Parlando di draghi nell'immaginario fantasy, si suole riferirsi a creature mostruose, malvagie, dotate di dimensioni notevoli e un respiro infuocato capace di incenerire un cavaliere fino all'osso, compresa armatura e destriero. Sempre nel comune bestiario di genere, essi avrebbero la pessima abitudine di pretendere sacrifici umani, solitamente ignare donzelle vergini, per non apportare distruzione sulle sfortunate terre in cui dimorano e di conservare, sotto guardia costante, le ricchezze accumulate durante la loro vita...
In questa descrizione, a volte ammorbidita nei toni e mutata secondo le necessità di alcuni autori, si possono già rinvenire molti elementi classici delle leggende legate ai draghi nella tradizione occidentale, basata sull'impostazione cristiana di questo essere fantastico. Infatti, il drago sarebbe l'incarnazione del Demonio (o dell'Anticristo), evoluzione medioevale del serpente tentatore nella Genesi, sempre pronto a insidiare la purezza delle giovani e peccaminoso fino all'estrema cupidigia, peccato oltremodo grave già a partire dall'Alto Medio Evo.
Tuttavia, sarebbe errato pensare che l'origine della tradizione e delle leggende legate ai draghi sia da far coincidere con l'età medioevale occidentale o, tutt'al più, ai primi secoli dell'era cristiana. Vi sono reperti archeologici che fanno risalire le prime testimonianze su questo animale mitico a periodi anteriori e a zone geografiche differenti, nel Vicino e nell'Estremo Oriente.
Per esempio i Babilonesi adoravano, quale protettore dell'antica Babilonia, un animale chiamato Mushushu, il quale richiamava un drago nei tratti della parte anteriore. È curioso notare come tale fiera avesse non solo dei tratti bonari e protettivi, ma fosse anche un essere composito, cioè fosse il risultato dell'incrocio di più animali che avevano dato le proprie caratteristiche all'insieme. Ma si può procedere ancora più indietro nel tempo.
Gli stessi elementi, bonarietà e figura composita, sono difatti caratteristici dei draghi cinesi. I primi esempi stilizzati dell'animale sono stati scoperti addirittura in terrecotte neolitiche, mentre i reperti sicuramente databili con questo soggetto sono giade e ceramiche della dinastia Shang (XVI - IX sec. avanti Cristo). Dalla testa di cammello con corna di cervo agli artigli d'aquila, i draghi dell'Estremo Oriente sono espressione della possanza del mondo animale trasmessa dalla tradizione cinese. Altre caratteristiche erano la capacità di rendersi invisibili o di potersi sottoporre a metamorfosi per aiutare gli uomini e, soprattutto, l'avere grandi e lunghi baffi.
Nella Cina arcaica si distinguevano diversi tipi di draghi:
i long, dominatori dei cieli, erano in grado di volare. Quando non utilizzavano la magia per il volo, erano dotati di piccole ali da pipistrello;
i li, dominatori degli oceani, erano senza corna;
i jiao, signori delle paludi e delle grotte montane, avevano una corazza di scaglie simili a quelle delle carpe.
In tutti i casi, comunque, i draghi cinesi avevano un legame molto stretto con l'acqua, sotto forma di fiumi, mari, oceani o, come per i long, di pioggia. La visione del drago vicino all'elemento acquatico, in contrasto con i draghi occidentali legati al fuoco, ci mette di fronte alla chiara distinzione tra l'animale benigno orientale e il suo corrispondente europeo, espressione del mutamento travolgente se non della vera e propria malvagità.
Da quanto tratteggiato, è presumibile pensare, sebbene non sia provato, che la tradizione dei draghi abbia iniziato un lento spostamento da oriente a occidente, dalla Cina a Babilonia per poi arrivare in Europa. Quando si sarebbe verificata veramente la modifica del carattere dei draghi, da divinità benigna della natura a espressione del Male? Se rispondessimo col Cristianesimo, potremmo cadere nuovamente in errore.
Già nel libro di Giobbe, nell'Antico Testamento, viene descritto un coccodrillo che ha tutto l'aspetto di un drago medioevale: «Ecco, la tua speranza è fallita, al solo vederlo uno stramazza. Nessuno è tanto audace da osare eccitarlo e chi mai potrà star saldo di fronte a lui? Chi mai lo ha assalito e si è salvato? Nessuno sotto tutto il cielo. Non tacerò la forza delle sue membra: in fatto di forza non ha pari. Chi gli ha mai aperto sul davanti il manto di pelle e nella sua doppia corazza chi può penetrare? Le porte della sua bocca chi mai ha aperto? Intorno ai suoi denti è il terrore! Il suo dorso è a lamine di scudi, saldate con stretto suggello; l'una con l'altra si toccano, sì che aria fra di esse non passa: ognuna aderisce alla vicina, sono compatte e non possono separarsi. Il suo starnuto irradia luce e i suoi occhi sono come le palpebre dell'aurora. Dalla sua bocca partono vampate, sprizzano scintille di fuoco. Dalle sue narici esce fumo come da caldaia, che bolle sul fuoco.» La comunanza tra draghi e coccodrilli era già presente tanto in Cina quanto a Babilonia, ma solo col procedere verso Occidente del loro mito, essi finiscono col divenire portatori di distruzione.
Quali legami vi siano tra la sapienza biblica e la cattività del popolo ebraico a Babilonia in questa mutata visione del coccodrillo-drago è difficile dirlo, ma si può sempre supporre che un animale considerato sacro dagli schiavisti non fosse ben visto dagli schiavi. Gli elementi negativi del drago sono ormai delineati quando la cultura greca pone di fronte a Eracle, nelle sue fatiche, l'Idra di Lernia, un serpente-drago dalle nove teste, di cui una immortale, e dal fiato pestilenziale.
L'incontro del concetto di drago col Cristianesimo è solo il colpo di grazia a una reputazione ormai in caduta libera. Così San Giovanni ce lo descrive nell'Apocalisse (12, 3-9): «Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato. Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e il figlio fu subito rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, ove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni. Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo. Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli.»
Il passaggio definitivo al lato oscuro della forza, come si direbbe in fantascienza, si era compiuto. A rincarare la dose, anche se non sarebbe stato necessario dopo l'importante contributo dell'Evangelista apocalittico, arrivarono sia la tradizione divulgativa cristiana dell'Alto Medio Evo sia la tradizione orale anglo-tedesca dello stesso periodo.
Nella prima si erge, mischiandosi alla seconda, San Giorgio, patrono d'Inghilterra e paladino della lotta contro i draghi. Egli diviene l'archetipo del buon cristiano che lotta contro il Serpente, il Demonio appunto. Non a caso, il picco di diffusione della leggenda si avrà alla fine del XII secolo, quando Riccardo I Cuor di Leone condusse gli inglesi in Terra Santa alla testa di una crociata.
Nella tradizione orale dell'Europa settentrionale, tipicamente pagana, i draghi avevano già in ogni caso una loro fama per nulla rassicurante che fu acuita dal contributo cristiano e messa per iscritto nel periodo medievale. Beowulf, eroe di un poema epico inglese scritto agli inizi dell'VIII secolo d.C., si batte con un drago con risultati davvero insoddisfacenti, mentre è nella Nibelungenlied che l'eroe germanico Sigfrido ci dà l'esempio di un utilizzo opportunistico dei draghi. Dopo averne ucciso uno, si cosparge del suo sangue che lo rende invulnerabile tranne nei punti non raggiunti dal magico unguento; un Achille nordico, arrivato con molti secoli di ritardo.
Come si è potuto leggere, l'evoluzione della figura mitica del drago ha un'ampiezza temporale e spaziale notevole ed è assolutamente slegata dal genere fantasy e dalla sua collocazione tradizionale nel medioevo nordeuropeo

sabato 7 maggio 2011

GENGIS KHAN

   

All'inizio del XII secolo numerose tribù turco-mongole vivevano nell'altopiano stepposo dell'Asia centrale, simili per lingua e cultura, nomadi per necessità e costumi di vita, questi gruppi si erano uniti in piccoli clan per lo più famigliari, indipendenti tra loro, armati e decisi a difendere i loro pascoli e le mandrie.
Tra questi spiccavano per importanza e ricchezza d'armenti quelli dei Keraiti, dei Tartari e dei Naimani.

Generalmente prive di contatti stabili, e definitivi tra loro, si erano uniti saltuariamente in comune, per opporre una resistenza efficace contro i minacciosi Kirghisi, e contro i Tungusi Liao abitanti, le regioni settentrionali della Cina. Si trattò di una breve e sporadica alleanza, essendo totalmente privi di una comune volontà politica o dinastica.
Queste tribù non essendo autosufficienti, per integrare il sistema di vita nomade (abiti, derrate alimentari, oggetti artigianali ecc.) compivano, saltuarie incursioni nei ricchi e vicini territori cinesi.

La Cina per difendere i propri possessi, reagiva sia sul piano militare sia su quel politico, sfruttando abilmente le discordie tra i vari capi clan, concedendo titoli onorifici, provviste di cibo ad alcune tribù mongole in cambio di una vigilanza ai confini.
Questa politica cinese durò sino alla fine del XII secolo, in questo periodo Temujin (Gengis Khan) erede del potente Yesughei Khan, capo incontrastato d'alcune tribù minori riunite sotto il nome di Manghol (mongoli).
Anche la data esatta della sua nascita non è certa, nel 1155 secondo fonti persiane, nel 1162, 1167 o 1176 secondo altre.
Temujin figlio di Yesughei, come consuetudine tra i popoli della steppa, al nuovo nato era imposto un nome, che rammentasse una gloriosa impresa appena compiuta dal genitore, il padre aveva appena sconfitto due capi tartari, uno dei quali si chiamava Temujin.
Il bimbo crebbe forte e robusto, sveglio nella mente, quando ebbe nove anni il padre ritenne giunto il momento di trovargli la futura sposa, come voleva il costume mongolo i due si misero in viaggio per visitare i clan più lontani, visitarono i Kin e furono ospiti di Dai Sescen capo dei Qongghirat, la leggenda vuole che Temujin ospite di Dai Sescen s'innamoro della bella figlia del capo Borte di dieci anni, più probabilmente ciò rientrava nella politica unionista di Yesughei, il quale offri il proprio stallone nero al capo, e lascio al campo Temujin perché lavorasse gratuitamente per un certo numero d'anni per il futuro suocero, e fornisse prova di se prima del matrimonio, sempre secondo il costume mongolo.


Gengis nell'anno della Tigre 1206, era il dominatore assoluto di tutto il territorio abitato dai Mongoli, le popolazioni Tartare si riunirono a Gengis Khan e gli conferirono il titolo d'Imperatore.
Durante questa grand'assemblea, furono poste le basi del futuro stato mongolo, fu riorganizzato l'esercito, fu imposta una legislazione fiscale, istituito una rete postale di stato e creata anche un'organizzazione burocratica, composta prevalentemente di (Uiguri) un popolo di cultura superiore, abitante il Sinkiang settentrionale, arresosi senza resistenza al conquistatore mongolo.

Temujin impose ai suoi parenti, agli ufficiali dell'esercito, ai dignitari di corte d'imparare a leggere e scrivere nel linguaggio degli Uiguri, che divenne la lingua ufficiale del nascente impero.
Creata la struttura dello stato, il sovrano mongolo diede inizio alla grande stagione delle conquiste, in quindici anni di guerra, sottomise il regno dei Si Hisa (1205-1209), devastò quello dei Kin (1211-1215) occupando Pechino la capitale, attaccò la Corasmia spingendosi fino all'estremo occidente (1219-1223).
Alla sua morte avvenuta il 18 agosto 1227, l'impero fu diviso tra i suoi quattro figli: Giutsci, Giagatai, Ogodei e Tului.


i quattro regni mongoli

Ogodei dopo aver vinto l'opposizione dei fratelli, divenne nel 1229 Gran Khan, il terzogenito del "flagello di Dio" appena giunto al potere riorganizzò l'esercito, completando la conquista della Cina centro-settentrionale e della Persia.
Decise una nuova spedizione verso occidente nel 1235, affidando il comando al nipote Batu, travolgendo i Cumani, i Bulgari, gli Ungheresi e i Polacchi. Batu si ritirò nei territori "dell'Orda d'Oro".
Morto Guyuk successore d'Ogedei nel 1248, sali al trono Mongha (1251-1259), che dopo aver delegato ai fratelli Qubilai (gran khan dal 1260 al 1294) e Hulagu i problemi militari, si occupò dell'organizzazione amministrativa del grande impero.

Mentre Hulagu conquistava la Persia, fondando il regno degli Ilkhan, Qubilai "amministratore militare e civile dei territori cinesi a sud del Gobi, attaccò nel 1258 il regno dei Sung sottomettendolo definitivamente 19 anni più tardi.
Dopo tale vittoria l'erede di Gengis, trasferiva la sua capitale a Pechino nel 1260, e dopo alcuni fallimenti di conquista verso l'arcipelago giapponese, si dedico interamente all'organizzazione politica e militare delle vaste terre cinesi.
La Cina fu divisa in dodici province, e la popolazione in quattro classi: Mongoli (dignitari e possessori terrieri esenti da ogni tassa), asiatici continentali (turchi ed europei addetti all'amministrazione ed al commercio), cinesi del nord e coreani (piccola borghesia), cinesi sung (barbari privi d'ogni diritto ed esclusi dal commercio).

Subito dopo la morte di Qubilai avvenuta nel 1294, comparvero i primi segni di decadenza nel grande impero, le province dell'Asia centrale ed occidentale da un lato, quelle russe dall'altro, cominciarono a distaccarsi dal governo centrale di Pechino.
Nel 1368 il movimento unitario cinese, nato dal malcontento della popolazione rurale, guidato da un monaco buddista (Tsiu Yuan-tsciang) fondatore della dinastia Ming, costrinse l'ultimo imperatore tartaro Toghan-Temur, a fuggire in Mongolia.
La dominazione Mongolo-Tartara era finita e il vastissimo impero di Gengis Khan definitivamente diviso.

Gengis Khan a differenza di Maometto, non portò la guerra nel mondo per motivi religiosi, né come Alessandro, Giulio Cesare, o Carlo Magno per motivi personali o politici, ma per necessità. Si cercavano nuovi pascoli per la sopravvivenza del suo popolo, per questo si servi della guerra che condusse con determinazione, inflessibilità, crudeltà e violenza.